16 de junio de 2008

Su “Gente d’Italia” la rubrica A Modo Mio di Silvana Mangione LA PRIMA CONFERENZA DEI GIOVANI NEL MONDO

Se non vogliamo fare un enorme buco nell’acqua, dobbiamo smettere di cercare di imporre ai giovani la nostra visione

 

NEW YORK - La Prima Conferenza dei Giovani Italiani nel Mondo. La chiediamo da quindici anni – scrive  Silvana Mangione dalla redazione di Gente d’Italia quotidiano delle americhe diretto da Mimmo Porpiglia - . Ce n’è stato un assaggio nell’incontro realizzato a Campobasso, a dicembre del 2000, in concomitanza con la Prima Conferenza degli Italiani nel Mondo e definito Convegno. Il titolo di allora, lungo e pomposo, fu: «Le nuove generazioni: tendenze, aspettative, richiami, opportunità». I giovani non lo avrebbero mai chiamato così. Il loro linguaggio è molto più scarno e concreto, non per mancanza di ispirazione filosofica, ma per mancanza di tempo e scarsa volontà di adoperare parole fruste di antico sapore politichese.

La Prima vera Conferenza dei Giovani italiani nel mondo si dovrebbe tenere entro quest’anno. Non sappiamo esattamente quando. Probabilmente a dicembre, se verranno reintegrati i fondi tolti alle rappresentanze degli italiani all’estero. Non sappiamo esattamente dove. Il luogo perfetto sarebbe Roma, ma i due milioni di euro, accantonati per la Conferenza dalla finanziaria 2008, sono stati tagliati a metà, perciò speriamo che qualche Regione si faccia avanti ed offra di ospitare i ragazzi convenuti da tutto il mondo per non dover ridurre la Conferenza all’incontro di qualche centinaio scarso di giovani.

Il Consiglio Generale degli Italiani all’Estero ci sta lavorando da anni. È un’eredità di approfondimento, di coinvolgimento, di desiderio reale che la si smetta di riempirsi la bocca di parole e si faccia qualcosa di concreto per capire il rapporto che i nostri ragazzi, di seconda e successive generazioni, hanno o vogliono avere con la patria d’origine.

Sembra che negli ultimi mesi il mondo industrial–globalizzato si sia riempito del «nuovo che avanza», sulla scia del pifferaio magico, che favolisticamente inneggia alla speranza e allo «yes, we can». A me viene sempre spontanea la reazione di chiedere: «what?», vale a dire, al cantico che «sì, possiamo», vorrei che seguisse la dichiarazione del «che cosa» possiamo e vogliamo fare. Nel caso dei giovani il «che cosa» deve venire da loro. Si devono scegliere fra loro, per evitare che i discendenti delle dinastie emigratorie, che si sono impadronite di Consulte e Comites., impongano quelli, fra i loro rampolli, che parlano il vetero–linguaggio dei professionisti dell’emigrazione italiana in Italia e all’estero.

Ne sono esempi probatori – e perciò contrapposti – il documento finale del Convegno di Campobasso del 2000 e il documento, ad esempio, che i giovani italo–americani hanno stilato al termine del loro incontro di dicembre 2007. Nel primo si chiedono le stesse cose che appaiono in tutti i documenti dei grandi – di età, s’intende – al termine delle riunioni di Consulte, Comitati e Consigli, vale a dire l’approvazione di nuove leggi sulla cittadinanza, la lingua e cultura, la riforma di Comites e CGIE, l’editoria all’estero, nonché, addirittura, la creazione di un «Consiglio Giovanile Italiano, composto da giovani di ogni Regione italiana, residenti in Italia, con il quale i giovani italiani residenti all’estero possano collegarsi e collaborare insieme sugli attuali problemi che riguardano la gioventù e individuare iniziative concrete per il futuro, con l’intento di coinvolgere eventualmente e gradualmente tutte le altre culture che si intrecciano con la nostra». Tanto per riportare come sempre la palla al centro dell’Impero, cioè Roma, da cui dettare le norme di comportamento alla periferia dell’Impero, cioè il resto del mondo.

Non so chi abbia dettato questa parte del documento. I giovani di seconda e successive generazioni non parlerebbero mai della cultura italiana come «nostra». Loro sono nati all’estero, lì hanno studiato, sono – nel migliore dei casi – bilingui e biculturali. Il rischio vero è che per «nostra» intendano solo ed esclusivamente la cultura del paese in cui sono nati e cresciuti. Nel documento del New Jersey si parla di comunicazione, di contatti a livello nazionale e internazionale, di siti internet dove incontrarsi e dialogare, di costruzione di rete, di conoscenza reciproca, di curiosità nell’esplorare il resto del mondo legato dal filo comune dell’origine. Se non vogliamo fare un enorme buco nell’acqua, dobbiamo smettere di cercare di imporre la nostra visione legata ad uno spazio fisico circoscritto e in certo qual modo fissato nel tempo. I nostri giovani vivono in una dimensione globale e in continuo divenire, fatta di segni e di segnali, di lingo comune al di là delle lingue effettivamente parlate. I nostri giovani sono davvero cittadini del mondo e ricondurli ad una matrice italiana è un nostro obiettivo da perseguire con infinita delicatezza e rispetto del loro essere chi vogliono essere, per evitare di perderli per sempre. (Silvana Mangione-Gente d’Italia/Inform)

 

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